L'Indice dei Libri del Mese, Anno XXXIV, N. 2 - febbraio 2017

La vendetta è il racconto

Max Mannheimer, Una speranza ostinata. Terezin, Auschwitz, Varsavia, Dachau, trad. e cura di Claudio Cumani, pref. di Paolo Rumiz, Torino, add editore, 2016, pagg. 125.

Alberto Cavaglion (Professore di "Storia dell'Ebraismo" all'Università di Firenze)

 

Per la varietà delle esperienze narrate - e la ammirevole manutenzione del ricordo - questo breve ma intenso memoriale già tradotto in molte lingue, ma che ha visto la luce in traduzione italiana poco prima che l'autore ci lasciasse, garantisce a chi legge più di una sorpresa. Questo avviene nonostante l'esiguità di un testo che al netto degli apparati illustrativi è composto di poche decine di pagine,

Diceva la compianta Marina Jarre, nel suo estremo ritorno ai "padri lontani", che al sopravvissuto della Shoah è toccata in sorte la "perfidia della ripetizione": l'obbligo di levigare il racconto reiterandolo. Il patimento riguarda chi scrive e chi legge e diventa drammatico per il lettore delle ultime generazioni. Nel caso di Mannheimer, come accade ormai sporadicamente, il dolore a oltranza non lascia trasparire in nessun passaggio il peso della ripetizione. Una speranza ostinata conserva la spontaneità delle testimonianze uscite subito alla fine del conflitto e per il lettore italiano questo vago senso di anacronismo rende più preziosa la scoperta di un piccolo gioiello.

Vale per Mannheimer l'ipotesi avanzata con chiarezza in un famoso saggio di Pier Vincenzo Mengaldo. Il male subìto può essere vendicato soltanto con il racconto. La vendetta è il racconto. Una speranza ostinata è un testo che attribuisce al valore lenitivo della memoria, al meminisse iuvabit, un compito prioritario. La vendetta del racconto è come se fosse attenuata dal bisogno di chiarezza e di precisione. Questa necessità viene portata a compimento e resa più salda - nell'edizione originale e adesso pure nella traduzione italiana - grazie al contributo scientifico di Wolfgang Benz, già direttore del Centro studi sull'antisemitismo e a lungo docente ha presso la Technische Universität di Berlino. A Benz, cioè a uno dei più noti studiosi del Terzo Reich e della Shoah, si deve l'apparato di note che conclude un testo, che per la sua asciutta sobrietà ricorda in molte parti Se questo è un uomo (per esempio nell'uso disordinato e anarchico dei tempi verbali). L'originalità sta anche altrove. Ad esempio nel fatto che nell'arco ristretto di pochi capitoletti brevissimi, con l'andatura diaristica, l'autore metta alla prova la sua "ostinata speranza" attraverso quattro luoghi simbolici (Terezin, Auschwitz, Varsavia e Dachau) che tuttavia nella storia della deportazione posseggono fra loro storie del tutto diverse. Per ciascuno di questi luoghi è detto l'essenziale, senza nessuna concessione al sentimentalismo. Il racconto prende alla gola.

Nei quattro luoghi del patimento - dal primo all'ultimo - la speranza anziché affievolirsi si consolida; per quanto possa sembrare paradossale la speranza si fa ancora più "ostinata", perché le notizie che Mannheimer fornisce sono sempre precise sebbene riguardanti luoghi della persecuzione fra loro disomogenei. Solo pensare a una simile varietà e difformità di esperienze farebbe venire il capogiro allo storico della deportazione razziale. Qui la letteratura viene in soccorso al testimone. Una sorpresa davvero notevole si trova nelle pagine davvero intense e importanti sulla storia del ghetto di Varsavia. Eclettico esponente della borghesia ebraica centro-europea, Mannheimer avvia la sua memoria partendo dalla felice infanzia, rievocando la figura dei suoi antenati in alcuni squarci che fanno venire in mente la prima parte dell'autobiografia di Gershom Scholem. Avvolte in un alone di umana pietà il ricordo delle debolezze del padre, della educazione più rigida della madre. Il libro si apre con tre pagine di pura elegia, che valgono l'intero lavoro: si descrive la misura dell'inatteso ovvero la scoperta della gravità dell'odio razziale agli albori del regime nazionalsocialista, ma lo si fa partendo da un lontano souvenir scolastico, con la ingenuità tipica dell'anziano che ricorda attraverso gli occhi dell'infanzia.

Il volume è corredato da alcune toccanti riproduzioni dall'album di famiglia e i diversi capitoli - altra contiguità con Levi - sono introdotti da essenziali cartine geografiche utili a ricostruire i trasferimenti coatti del prigioniero. L'intento didascalico è evidente, ma non opprimente. La traduzione di Una speranza ostinata è eccellente, al curatore Claudio Cumani si deve una postfazione molto ricca di informazioni, dove fra l'altro si ricostruisce nei dettagli la lunga e romanzesca senilità di Mannheimer, artista e scrittore.

La prefazione di Paolo Rumiz, infine, ribadisce una linea costante nell'autobiografia non solo ebraica del Novecento: pur a decenni di distanza degli eventi, Trieste continua ancora oggi, con tutta evidenza, a funzionare da filtro culturale, rendendo possibile e indirettamente favorendo l'ingresso in Italia di libri "necessari" altrimenti destinati all'oblio.