Monaco di Baviera, 29.04.2012

Commemorato a Dachau l'anniversario della Liberazione

Comites - Monaco di Baviera

 

Domenica 29 aprile, alla Cappella Italiana sul colle del Leitenberg, presso l'ex campo di concentramento di Dachau, si è svolta la cerimonia di commemorazione della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo, organizzata dal Consolato Generale e dal Comites di Monaco di Baviera.

I discorsi ufficiali sono stati tenuti dal Console Generale Filippo Scammacca del Murgo e dell'Agnone e dal Presidente del Comites Claudio Cumani.

La cerimonia è terminata con la deposizione di una corona di fiori.

Riportiamo il discorso tenuto dal Presidente del Comites, Claudio Cumani

 


 

Gentile Console Generale,
gentili autorità militari,
gentili rappresentanti delle associazioni d'arma e del volontariato,
gentili signore e signori,

nel 1954 Piero Calamandrei al Teatro Lirico di Milano ricordava:

"Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine [...], nelle guardine della polizia, nell'aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuoriusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c'era un caduto, il cui nome risuonava [...] come una voce fraterna che [...] rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di Resistenza sorda [...]. Vent'anni: e alla fine la guerra partigiana scoppiò come una miracolosa esplosione.
[...] La chiamata fu anonima [...]: era la chiamata di una voce diffusa come l'aria che si respira, che si svegliava da sé in ogni cuore, nei più generosi e nei più pigri, un'ispirazione che sussurrava dentro, che comandava dentro: «Se sei un uomo, se hai dignità d'uomo, questa è l'ora!»
[...] Grave errore sarebbe cercar di annettere la Resistenza a un partito o a una chiesa, farne un'espressione, per quanto alta e purissima, di una ideologia politica o confessionale. [...] Lo spirito di sacrificio che ha portato migliaia di martiri a sfidare la tortura e la fucilazione e il capestro [...] era la coscienza di un dovere civile da adempiere, la consapevolezza della necessità non più differibile di un rinnovamento totale della nostra vita nazionale".

Questo raccontava Calamandrei: la Liberazione come rinascita morale, etica, spirituale dell'Italia. Fenomeno che coinvolse partigiani, militari e popolazioni civili, ed arrivò fino nei campi di concentramento come quello in cui siamo: penso - tra gli altri - ai 600mila militari italiani internati in Germania che respinsero ogni lusinga rifiutando l'adesione al regime collaborazionista della Repubblica Sociale.

E qualche giorno fa il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha aggiunto che "la Festa della Liberazione è anche festa della riunificazione dell'Italia brutalmente divisa in due, dopo l'8 settembre del 1943, dall'occupazione tedesca".

Festa dell'unità d'Italia, quindi. Unità la cui celebrazione non si è conclusa con la fine delle manifestazioni per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d'Italia, ma che si ripete ogni anno il 25 aprile ed il 2 giugno, le feste laiche che ci ricordano le nostre radici e ci spronano a ripensare il nostro futuro. Passato e futuro tanto più importanti in quanto viviamo in un presente difficile ed incerto, insidiato da crisi internazionali e da nodi dello sviluppo (o del mancato sviluppo) economico, politico, sociale e culturale italiano.

Un presente nel quale si ascoltano voci che vorrebbero interrompere ed invertire il percorso dell'unità europea (nato proprio dal ricordo degli orrori della seconda guerra mondiale e dei totalitarismi che hanno colpito il nostro continente nel secolo scorso). O voci che rimettono in discussione l'esistenza stessa del nostro Paese, in nome di patrie locali inesistenti, o di superiorità - morali e politiche - regionali che fatti anche recenti hanno clamorosamente smentito, dimostrando che - pur nelle preziose differenze e specificità territoriali - tutti gli italiani (del Nord, del Centro e del Sud) possono dimostrare capacità e generosità di cui poter andare fieri, ma sofforno anche limiti e piaghe (la corruzione, il malaffare familistico o criminale) da cui doversi liberare al piú presto.

E' questo un presente nel quale la critica sacrosanta alle degenerazioni della politica e dei partiti rischia di diventare critica alla politica stessa, intesa nel suo senso più vero e nobile di confronto difficile - ma necessario - fra progetti diversi e mediazione fra interessi differenti, cioè arte del vivere insieme. Critica alla politica e chiusura nel proprio particolare, in nome del «tengo famiglia» e «mi faccio i fatti miei».

Ma anche di fronte a queste derive torna attuale e significativa l'esperienza della Resistenza e di coloro che la vissero. E ritorno a Piero Calamandrei, che già nel 1946 scriveva:

"Oggi ci sembra di avvertire d'intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento. [...] Il pericolo è in questa facilità dell'oblio, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato. Oggi le persone benpensanti [...] cambiano discorso infastidite quando sentono parlare di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani? Una forma di banditismo. [...] Sono questi i segni dell'antica malattia. E [...] rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo è il pericoloso stato d'animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso", concludeva Calamandrei, aggiungendo: "Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta".

Qui ed ora: ancora una volta, ognuno di noi può. Può agire, reagire, impegnarsi. Per noi stessi, ma soprattutto per l'avvenire dell'Italia e dell'Europa, dell'Italia nell'Europa, per l'avvenire del mondo, per l'avvenire dei nostri figli e dei nostri nipoti.

Grazie.