Dachau, ex-campo di concentramento, 24.04.2005

Discorso del presidente del Comites di Monaco di Baviera, Claudio Cumani, in occasione della cerimonia ufficiale per il 25 aprile, 60 anniversario della Liberazione dell'Italia dal fascismo e dal nazismo

 

Nell'aprile-maggio di 60 anni fa si concludeva in Europa il secondo conflitto mondiale e con la guerra terminavano anche i regimi che quel conflitto avevano causato. Crollava il nazismo - che la guerra aveva voluto ed organizzato - crollava il fascismo - che alla guerra si era accodato al solo scopo di poter saltare sul carro di quello che allora sembrava il vincitore al modico prezzo di qualche migliaio di morti. Germania ed Italia uscivano devastate dalla guerra, ridotte territorialmente, con le industrie distrutte, le città in macerie e molti dei loro tesori storici ed artistici perduti per sempre, milioni di uomini, donne e bambini morti, feriti, mutilati, migliaia di concittadini cacciati dalle loro terre d'origine, ormai perdute.

Ma la distruzione di questi paesi non era iniziata con la guerra: nel corso degli anni - attraverso le loro politiche culturali e razziali - il nazismo ed il fascismo erano riusciti a cancellare tradizioni importanti, mandando in esilio il fior fiore della cultura tedesca ed italiana. La Germania perse per sempre cervelli del calibro di Albert Einstein, ma anche per l'Italia il bilancio fu tragico: le nostre storiche scuole di matematica, fisica e biologia furono smembrate, i loro maestri ridotti al silenzio o costretti ad emigrare (e parliamo di scienziati come Enrico Fermi, Bruno Rossi, Emilio Segrè, Gino Fano, Guido Fubini, Vito Volterra, Tullio Levi-Civita, Salvatore Luria, Rita Levi Montalcini e molti altri, fra i quali alcuni già erano o diventeranno premi Nobel).

Questa distruzione culturale era anche negazione della storia nazionale dei propri paesi, alla cui costruzione unitaria - sia in Germania che in Italia - i cittadini di religione ebraica avevano dato un enorme, fecondo contributo. Era anche negazione dell'esistenza e dei diritti delle minoranze etniche, religiose, sessuali presenti nel nostro Paese. Specialmente nelle zone di confine la persecuzione dei cittadini di madrelingua differente da quella italiana fu crudele e gettò i semi di odii ed incomprensioni reciproche i cui effetti tardano ancora ad esaurirsi del tutto. E quando l'Italia si volle gettare nel conflitto, estese questa politica di odio e disprezzo ai territori che occupò militarmente o che addirittura - e senza alcuna ragione storica - annesse al Regno d'Italia, come nel caso della Slovenia che nel 1941 divenne "Provincia di Lubiana". E se alcuni convegni importanti, come quello tenutosi nei giorni scorsi a Roma (L'Asse in guerra), gettano nuova luce anche sui crimini dei soldati italiani nella "campagna di Russia", è proprio giunta l'ora di smetterla col mito degli "Italiani brava gente" e di imparare come nazione a fare i conti con la nostra storia, anche con le sue pagine più nere, come le stragi compiute durante l'avventura coloniale (compreso l'uso sistematico dei gas contro la popolazione civile in Libia), i campi di concentramento organizzati in Slovenia e Croazia o le nostre politiche razziste.

La Repubblica Italiana nata dalla Resistenza è stata magnanima, perfino generosa con i suoi antichi avversari: dall'amnistia generale per i reati politici - firmata nel giugno 1946 dall'allora Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti - alla pensione concessa agli ex-combattenti della mussoliniana Repubblica Sociale - sottoscritta dal "Presidente partigiano" Sandro Pertini nel 1978 - non si può certo accusare lo Stato italiano di persecuzione antifascista!

Ma la questione non è chiusa. Come ha faticosamente fatto la Germania col suo passato, anche noi dobbiamo riconoscere tutta la nostra storia, compresi i crimini compiuti dentro e fuori i confini nazionali. Smettendo di usare la Storia in modo strumentale - per motivi politici contingenti - ed allo stesso tempo rispondendo seriamente a tutti i tentativi di rimozione o giustificazione di un passato che non è possibile giustificare, ma che anzi è da ricordare, affinché non si ripeta.

Il rispetto delle vittime ci impone di rifiutare sia la negazione della nostra storia, sia il suo uso quale strumento della battaglia politica presente. Per questo riteniamo inappropriato rinfacciare una storia personale legata ai miti del fascismo a chi ha saputo cambiare il proprio giudizio sulla dittatura mussoliniana e sul valore dell'antifascismo. Ma per lo stesso motivo ci ribelliamo di fronte a quel manipolo di nostalgici che si ostinano a rivendicare con orgoglio il proprio passato di fascisti, o che hanno ideato la recente proposta di legge che equipara i militari della Repubblica Sociale Italiana (cito testualmente) "a quanti prestarono servizio nei diversi eserciti dei Paesi fra loro in conflitto durante la seconda guerra mondiale", mescolando e confondendo aggressori ed aggrediti, criminali e liberatori. Di fronte ad una tale sfacciataggine viene in mente quanto il grande antifascista Vittorio Foa disse in Senato al missino Giorgio Pisanò: "Abbiamo vinto noi, e tu sei diventato senatore. Avessi vinto tu, io sarei ancora in galera". Ha vinto l'antifascismo ed ex-repubblichini sono potuti diventare Ministri della Repubblica. Avesse vinto il nazifascismo, il campo di concentramento di Dachau e tutti gli altri non sarebbero stati liberati 60 anni fa e chissà per quanto tempo ancora avrebbero funzionato!

Va detto senza odio, senza astio, senza rabbia. Ma per amore di verità, perché non ci si confonda su chi allora fu vero "patriota". Non fu "patriota" la Repubblica Sociale, che nel 1943 regalò alla Germania le province nord-orientali (Bolzano, Trento, Belluno, il Friuli e la Venezia-Giulia) che divennero di fatto parte del Reich col nome di Alpenvorland e Adriatisches Küstenland. Ed è solo colpa del fascismo e della guerra da questi provocata se l'Italia perse l'Istria e molti italiani persero con essa casa e radici.

È invece grazie all'antifascismo, è grazie a quel - forse minoritario - gruppo di italiani che seppero ribellarsi, che l'Italia ha potuto risorgere e ritrovare la sua dignità. Come ci racconta un altro grande combattente per la libertà, Alfredo Reichlin, riguardo i motivi della sua scelta per l'antifascismo, dopo lo sfascio seguito all'armistizio dell'8 settembre 1943: "Era la patria che ci chiamava. Può sembrare retorico, ma è la pura verità. Bisogna aver vissuto quel trauma e quella vergogna: una intera classe dirigente in fuga, la scomparsa - di colpo - dello Stato anche nel suo significato materiale, quotidiano. E quindi il dissolversi dell'ossatura del paese con tutto ciò che ne conseguiva: il venir meno della sua identità e, in più, un interrogativo angoscioso sul suo destino come nazione. Fu a questo punto che scattò qualcosa nell'animo di tanti soldati e ufficiali sbandati, di studenti, di operai. Bisognava riscattare l'onore dell'Italia, riconquistare la libertà col proprio sangue senza aspettare lo straniero, impedire che il governo del paese tornasse nelle mani di chi lo aveva tradito".

Il poeta Giorgio Caproni espresse - qualche anno fa - il suo sconcerto di fronte al revisionismo storico crescente: "I morti per la libertà, / Chi l'avrebbe mai detto./ I morti. Per la libertà. / Sono tutti sepolti".

A noi che - per dirla con Bertold Brecht - siamo "scampati a quei tempi bui", a noi che non abbiamo conosciuto la tragedia del fascismo e della guerra, ma che abbiamo avuto la fortuna di conoscere, ascoltare, dialogare con i testimoni diretti di quei fatti, a noi sta ora ricordare. Senza retorica, con onestà, con umiltà. Anche con spirito critico, senza timori, aperti ad ogni ricerca, certo. Ma forti di alcuni principi di base, come il rifiuto dell'equiparazione fra vittime e carnefici. Ricordare e trasmettere il ricordo alle generazioni che verranno. Affinché i morti per la libertà siano sė - ormai - sepolti, ma restino vivi ed attuali i valori che li motivarono ed il loro messaggio di dignità e democrazia.